E sono contenta
Di essere viva
E di avere sentito
Il rumore dell’acqua

Accoccolata su una delle rocce che costellano l’orto di H mi perdo ancora una volta nella bellezza del tramonto su Yatta. C’è un momento preciso, il mio preferito, dove il cielo si colora di rosso, bianco e blu, qualche minuto prima del calare del buio. Fa fresco ora, tira un venticello leggero.
Alle mie spalle troneggia una torretta militare israeliana costruita dopo il 7 ottobre sullo spazio dove l’anno scorso abbiamo piantato pomodori, ulivi, cipolle, melanzane. Non c’è più nulla, ci sono passati sopra con il bulldozer qualche mese fa appiattendo tutto: muretti, piante, sistema di irrigazione. I tubi giacciono per terra, tagliati in tanti pezzi uno più corto dell’altro. Sono decine di metri, tutti spezzettati.

“Non puoi lavorare qui” hanno detto ad H i soldati coloni nelle ultime settimane. Troppo vicino alla colonia, motivi di sicurezza, zona militare chiusa; ogni scusa è buona.

Leggi tutto...

L'occupazione si fa sempre più devastante, dal mio precedente turno, appena prima della guerra.
Da allora ad oggi la differenza è abissale, in 8 mesi i coloni hanno reso molte strade, che eravamo abituati a calpestare, impraticabili, costruendo tende, case e piazzando roulotte.
In 8 mesi hanno quasi spezzato il morale palestinese, quello che succede a Gaza qua è percepito come se lo facessero alla loro comunità.
Ogni volta che il mondo impone il veto ad una risoluzione ONU, ad un cambiamento per fermare questo massacro, qua è percepito come l'ennesima pugnalata, l'ennesima volta in cui gli abitanti di questi villaggi si sentono considerati tutto tranne che umani.
Io di fronte a tutto ciò non provo rabbia o odio, ma provo delusione.
Delusione verso un sistema, delusione verso le istituzioni, delusione verso un modello (quello occidentale) che, secondo quanto mi è stato insegnato, dovrebbe rappresentare il massimo esempio di libertà e di umanità, ma che in questi tempi si è rivelato non molto diverso dalle Nazioni che tanto vengono criticate di solito come disumane e contrarie alla libertà individuale.

Leggi tutto...

Sul campo ti puoi ritrovare ad affrontare molte situazioni differenti, sotto mille punti di vista.

Dall’accompagnare dei pastori nelle loro terre per essere al loro fianco mentre resistono all’occupante, a documentare l’attacco ad un villaggio da parte di coloni armati, o un raid dell’esercito nella casa di una famiglia, all’accompagnare dei bambini nel viaggio che devono fare per arrivare a scuola.
In tutte queste situazioni sei presente attivamente e puoi dare il tuo contributo.
Ma c’è un momento in cui sei presente sul campo e, nonostante la tua presenza, l’unica cosa che puoi fare è assistere, come uno spettatore inerme che non può lasciare il suo posto.
Questo è quello che provi quando assisti alla demolizione della casa, e anche un po’ della vita, di un’intera famiglia.
Quando ho deciso di partecipare al progetto è stato perché non ce la facevo più a essere quello spettatore davanti al telefono o in una piazza a cercare di fare eco a tutte quelle voci spezzate, che da più di 75 anni urlano per denunciare i crimini dell’occupazione, contro il cieco occidente che si tappa le orecchie.
Quando ho deciso di scendere, era per ascoltare quelle persone ed essere al loro fianco nella loro lotta nonviolenta.
Ma quando assisti a una demolizione, tutte quelle convinzioni crollano e ti senti di troppo, senti più forte la tua condizione di spettatore delle atrocità che l’uomo è capace di compiere.

Leggi tutto...

Oggi c’è una strana nebbia calda che avvolge il sole e il villaggio.

L’aria è ferma, non sembra muoversi niente, anche i colori sono tetri.
Questa è la mia fotografia di oggi e vorrei rimanesse questa.
Anche se l’aria è pesante, non lo è l’animo.
Per un giorno ho dormito, non ho corso, non ho scrutato l’orizzonte.
I pensieri di questi giorni gravitano sulle immagini e le fotografie che mi porto dentro e che cerco di raccontare.
Qualche giorno fa cercavo di tenere in equilibrio una tazza di tè sul copertone di una macchina, mentre con la telecamera inquadravo l’ennesima macchina di un colono che passava vicino alla casa dove avevo dormito. Troppo vicino.
Ero a Umm Dhorit.
Chiamarlo villaggio è dargli una dimensione lusinghiera, ma inaccurata.
Sono due case con i tetti in lamiera tenuti fermi da copertoni e pezzi di cemento, due tende, una struttura per alloggiare gli animali, e un orto rigogliosissimo.
Ci abita una famiglia palestinese e la descrizione poco attraente che ne ho dato – giardino a parte – è dovuta al fatto che le loro case sono state rase al suolo qualche mese fa da un bulldozer israeliano.
Questo è il motivo per cui ero lì.

Leggi tutto...

Nella foto un pastore nella sua valle, la valle di Rakees, che pascola spingendosi fino al crinale, fino al luogo oltre il quale altri essere umani hanno deciso che lui non può più andare, non ha più questa libertà, sulla sua terra.
È stato tracciato un confine netto, agli occhi molto forte, questa volta non fatto di pietre, recinti o fili spinati, ma di bandiere.
Abusando di un potere che non ha nulla a che vedere con il diritto e l'umanità, a questo pastore viene tolto il diritto di muoversi, di abitare, di dormire senza paura di essere ucciso, picchiato, umiliato, di ricevere protezione da uno Stato che non lo riconosce neanche come essere umano, figuriamoci come cittadino.
Questo pastore si chiama Abu Arun, letteralmente padre di Arun, il primogenito.
Arun però non esiste più, è stato ucciso da una soldatessa israeliana con un colpo di pistola al collo, solo per aver difeso da una confisca il proprio generatore di corrente elettrica il 1° gennaio 2021.

Leggi tutto...