La lotta per preservare l’identità mapuche nelle carceri cilene
L’uomo in divisa verde e nera è un agente della Gendarmeria de Chile. Apre la porta di ferro del carcere di Temuco con un mazzo di carte di identità in mano. Inizia a scandire i nomi di familiari e amici giunti a incontrare i detenuti. Sono le 13:40, l’orario delle visite è scoccato da poco e questo è solo il primo di una lunga serie di appelli. Ad avere la precedenza saranno quelli che hanno consegnato i documenti la mattina, prima delle 11:00. Tra questi fortunati ci dovremmo essere anche io e Jacopo, un altro volontario che è con me, ma i nostri passaporti stranieri sono stati messi in coda all’innumerevole serie di carte di identità nazionali. Dovremo aspettare le prossime due chiamate. Siamo qui per incontrare dei prigionieri di origine mapuche, lo scopo è raccogliere delle testimonianze e informarci sulla situazione carceraria, ma il tramite per farlo come osservatori dei diritti umani è troppo lungo, quindi i familiari ci hanno ceduto un po’ del loro tempo per poter fare la visita.
Mi guardo attorno: distinti sprazzi di umanità si stringono sul marciapiede, tra le mura del carcere e la strada. Una tettoia verde in metallo protegge dalla pioggia in inverno e dal sole in estate, ma non riesce ad ospitare tutti. Hanno le facce stanche e avvilite, i loro occhi riflettono i segni dell’attesa. Spesso le loro braccia conserte si sciolgono per rivolgere una domanda agli agenti, una lamentela, un insulto in cileno.