Siamo arrivati da poche settimane in Grecia e abbiamo già ricevuto notizia di tre respingimenti nelle acque dell’Egeo, tra Grecia e Turchia. Le poche informazioni che abbiamo, grazie al lavoro dell’organizzazione Aegean Boat Report, ci dicono di un primo respingimento due settimane fa di 41 persone, tra cui più di 20 bambini al largo dell’isola Chios, della morte di una donna durante i soccorsi di un barcone, e infine di 23 persone di origine afgana che sono state picchiate, torturate e respinte al largo di Lesbo.
La frequenza con cui avvengono questi eventi rischia spesso di normalizzare il fenomeno e di rendere queste violazioni del Diritto internazionale la norma, piuttosto che un reato. La visibilità e la copertura mediatica di questi fenomeni ormai si riduce all’impegno delle ONG presenti sul campo, il cui lavoro viene sempre più ostacolato dalle forze di polizia greche e dalle autorità, che spesso negano questi avvenimenti.

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Ci sono una donna eritrea, una coppia afghana, una donna kenyana, una coppia italiana che vive da 10 anni ad Atene e una volontaria che vive con loro da due anni, tre volontari/e del progetto Corpi Civili di Pace e un numero imprecisato di bambini e bambine con l'energia di un tornado.
No, non è l'inizio di una classica barzelletta ma la scena a cui ho assistito questa sera, nella Casa Famiglia di Atene.
Qui basta qualche coscia di pollo e un po' di musica trash per unire mondi solitamente lontanissimi e per far sentire le persone migranti solitamente indesiderate, desiderate.
"Desiderare: dal lat. desiderāre, comp. di dē- ‘de-’ e un deriv. di sīdus -ĕris ‘stella’; propr. ‘smettere di guardare le stelle a scopo augurale’, da cui ‘sentire la mancanza’, quindi ‘desiderare’." (Garzanti linguistica).
Ecco stasera, mentre tutti insieme ballavamo felici per salutare Fajza, la ragazza afghana che domani partirà, mentre la vedevo farsi i selfie con Janine, donna eritrea con cui ha condiviso una casa, pensavo che per queste persone è un dono anche la nostalgia. Pensare che dopo la partenza ci sarà qualcuno che parlerà di te, qualcuno che farà vedere le tue foto, qualcuno a cui mancherai, dona dignità e umanità. Soprattutto dopo mesi, anni, di soprusi, di violenze e umiliazioni.

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Hai un sorriso travolgente, Bushra. Quando mi prendi la mano e ridi, guardandomi con quegli occhi nerissimi, posso solo guardarti incantata. Il resto del tuo corpo tradisce i segni di sei anni in questo pantano: i capelli scuri, nascosti sotto l’Hijab, sono meno folti d’un tempo; la pelle è diventata grigia, arrugginita dalle lacrime. Tutto il tuo corpo vacilla sotto il peso di un’attesa perenne ed incerta.
Malgrado tutto, hai una forza straordinaria: su quel sorriso si reggono i tuoi cinque figli e tuo marito, ci reggiamo noi e le altre persone che hai incontrato in cammino. La stessa forza, tuttavia, ti lascia da sola a portare questo peso. Non vuoi che i tuoi figli debbano vedere le tue lacrime; non ti è concesso piangere davanti a tuo marito, né davanti agli sguardi che spiano dai container. Puoi smettere di sorridere solo con un’amica e con noi.

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Ero stata a Ventimiglia quando avevo 10 anni e, avida lettrice di Salgari, approfittando di una vacanza in Liguria, avevo pregato i miei genitori di portarmi a visitare la città d'origine del mitico Corsaro Nero - personaggio completamente inventato. Della città non ricordavo nulla, sentivo solo quei ricordi affettivi che richiamano più un'emozione del cuore che l'avvenimento della visita.
Ci sono tornata questa volta solo per una visita veloce insieme a un altro volontario, per farmi un'idea di come sia il confine più a ovest d'Italia, punto di fuga di moltissime persone che vogliono raggiungere la Francia e spesso proseguire anche oltre.
E com'è quindi? Sono molti i passaggi di confine, innanzitutto: due stradali, uno ferroviario, e altri attraverso i sentieri impervi tra le rocce. Ognuno implica rischi diversi, per chi ha la sfortuna di non avere documenti validi che garantiscano un "benvenuto" al momento del passaggio; si va dal rischio di essere respinti ed espulsi per tre anni su un treno o un autobus internazionale, al rischio di morire se si cammina sui binari al momento sbagliato. Insomma, ci vuole molto coraggio in ogni caso, e forse una buona dose di incoscienza. Del resto, per chi è sbarcato a Lampedusa dopo una traversata da incubo nel Mediterraneo, sembra l'ultimo tratto da superare, sembra che il più sia stato fatto. Ma non è così.

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“Tu penses qu’on peut vivre une vie?” (Pensi che possiamo vivere una vita?).
Serge ce lo chiede così, guardando una di noi dritta negli occhi.
Sotto l’ombra del berretto, gli occhi lucidi ma fermi rimbalzano poi da un viso all’altro.
Siamo fuori dal campo di Ritsona, dove l’aria è resa pesante dal caldo e dall’odore di plastica bruciata.
Le fabbriche sono infatti i soli edifici che circondano il campo, situato in un’area industriale a 70 km a nord di Atene e a 20 km da Chalkida, il centro abitato più vicino.
In Grecia l’isolamento geografico è un tassello fondamentale della segregazione sistematica delle persone in movimento.
La chiusura del campo di Eleonas e del progetto Estia (Operazione Colomba - Persone tra le persone) avevano già causato l’allontanamento dalle comunità urbane, dunque dalle scuole, dagli ospedali, dalle opportunità lavorative e dalle reti di associazioni.
Oggi, per un numero crescente di persone, la quotidianità è il campo: un contenitore grigio circondato dal filo spinato, dove situazioni giuridiche differenti e comunità diverse sono costrette a condividere un’attesa perenne e inutilmente violenta.
Negli ultimi mesi il campo di Ritsona ha lentamente subito dei mutamenti: un muro in più copre ora completamente la vista delle persone e dei container che si trovano al suo interno, i tornelli e le postazioni di controllo, in fila ordinata, troneggiano presso l’ingresso secondario, ora chiuso con un catenaccio dotato di lucchetto.

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