Palme, palme, palme, banane, banane, banane, aria leggera, afa, afa, afa, caldo umido…
Questo quello che vedo e sento appena atterrata ad Apartadó, luogo di cui ho sempre sentito tanto parlare, ma di cui solo ora colgo la realtà.
Ormai nei miei sogni notturni era diventata la terra delle piante più colorate e degli animali più strani e selvatici.
E ora eccoci qua, per davvero.
Dopo anni trascorsi tra virtualità e isolamento a causa della pandemia, finalmente di nuovo la vita: vera, dura e bellissima.
Il verde che caratterizza la Colombia mi pervade.
E dopo poco mi congiungo finalmente a Monica, il cui “habitat” ormai da anni è proprio questo Paese.
L’arrivo in Comunità di Pace è per me un sogno che si realizza: las Palomas de Paz (così siamo conosciuti qui noi volontari della Colomba) vivono da oltre 12 anni in questo contesto arduo e pericoloso, accompagnando e sostenendo quei contadini che continuano a vivere sulle loro terre, nonostante le minacce dei gruppi armati illegali.
Sembra una frase semplice, ma in realtà comprende svariati significati.
Come vivono i membri della Comunità di Pace sulle loro terre?
Tutti insieme, ognuno con la sua diversità ma in un corpo unico che è la loro realtà, una realtà fatta di singoli, con la propria storia, con le proprie ferite e i propri orgogli, che si uniscono per perseguire un progetto comune.

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Sono ormai giunta agli sgoccioli della mia esperienza in uno dei progetti di Operazione Colomba: ancora pochi giorni e farò ritorno in Italia. La famiglia, gli amici, i conoscenti stretti con cui ho mantenuto i contatti indicano così il rientro: tornare alla “mia realtà”. A pensarci bene, in effetti, partire per tuffarsi in un contesto completamente diverso, vivendone tutti gli aspetti senza pause, in maniera totalizzante, può avere un impatto molto forte e, in alcuni momenti duri; il pensiero di tornare a casa, dove tutto è conosciuto e privo di eccessive incognite, può portare un poco di sicurezza.

Eppure percepisco una nota stonata in questa definizione, qualcosa che mi disturba. Mi chiedo allora: qual è la “mia” realtà?
Non è forse quella che sto vivendo proprio qui, proprio adesso? E non porterò forse con me, impressi in cuore-testa-pancia tutti questi momenti, questa realtà che ora è anche “mia”? Non sono qui, del resto, per assumermi, come essere umano e cittadina di un mondo-rotondo, una fetta di responsabilità per contrastare le ingiustizie che affliggono il pianeta?
Eh sì, perché la realtà di un mondo globalizzato non può che essere esperita in tutta la sua complessità ed io, quando decisi di partire, sentivo il bisogno di trovare un esempio di resistenza alle brutture di un’umanità, quella contemporanea, che sembra aver reciso il cordone ombelicale con la Natura, barattandola con una fittizia dimensione virtuale e consumista, chiaramente insostenibile nel tempo.

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È un giovedì di lavoro comunitario, ossia il giorno prescelto dalla Comunità di Pace di San José de Apartadó per impegnarsi, collettivamente, in attività produttive e di manutenzione in aree territoriali condivise. Dopo varie occasioni mancate, finalmente posso accompagnare i lavoratori in una località che, per una ragione o per l’altra, finora non ho mai raggiunto: mi fa molto piacere perché so che, proprio lì, vive un simpatico anziano, che ho incontrato più volte in Comunità e che, pochi giorni prima, era stato vittima di un piccolo incidente a cavallo (e alla veneranda età di circa 80 anni, continuare a cavalcare è già di per sé un invidiabile traguardo).
Giunti in loco, raggiungiamo l’abitazione dell’uomo ma, dopo qualche chiacchiera e un caffè, scoppia uno di quegli acquazzoni che solo i Tropici sanno regalare, per cui si rientra a dorso di mula e io, priva delle capacità del mio amico cavaliere, sono grata all’animale che, passo dopo passo, mi riconduce a San Josecito.
Il buon umore, però, ha ben poca durata.

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Finalmente giunge il momento del mio primo accompagnamento ad una “vereda”, ossia un piccolo villaggio, distante alcune ore di cammino dal centro abitato principale della Comunità di Pace, chiamato “La Holandita”.
Mi cimento, quindi, nel montare su di una mula, partecipando ad una lenta, chiassosa e colorata carovana, composta da membri della Comunità e volontari internazionali, che si snoda per un lungo sentiero che si addentra nel profondo della selva: in più punti si deve guadare il fiume e i piedi (e le zampe) affondano nel fango creatosi dopo giorni di pioggia – quasi – ininterrotta. Si viene ripagati dallo spettacolo della natura lussureggiante e da un’atmosfera allegra, che anima soprattutto i più piccoli. E di fronte a tutta quest’esplosione di vita, stridono i cartelli disseminati lungo parte del sentiero, che avvisano della presenza di mine anti-uomo.

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Quando mio nonno, nato nel 1926 e vissuto in una valle bergamasca, decise di scrivere le sue memorie, lessi con grande curiosità di un mondo che mi sembrava lontano, immerso in un tempo a me sconosciuto, calato in un paesaggio nel frattempo mutato dall’intervento di tecnologie volte al progresso.
Nei suoi scritti, narra di un conflitto – la Seconda Guerra Mondiale – che scoppiò quando lui era ancora adolescente: racconta della solidarietà tra i contadini, soprattutto verso le famiglie più povere, dei soprusi che dovettero patire da parte di chi il potere – invece - ce l’aveva, della rassegnazione e della rabbia, ma anche delle strategie per non arrendersi davvero, non del tutto.
E della speranza in un futuro meno ingiusto, meno sanguinoso perché, in fondo, “c’era ancora qualcuno che pensava che fosse proibito ammazzare i civili”.
Eppure, anche dopo la pace, la violenza non scomparve completamente.
E quando nel Vecchio Continente si spensero i conflitti armati, iniziarono gli scontri di carattere economico, travestiti da progetti per lo sviluppo.
Quello stesso “sviluppo” che io, bambina, non ero in grado di mettere in discussione ma che, in un mondo globale, è diventato insostenibile perché le risorse del nostro pianeta Terra non sono inesauribili.

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