All tourists welcome

“Tourists enjoy your stay in the cemetery of Europe” recita un grande murales in uno dei quartieri di Atene. Sarà stato visto dai milioni di turisti che ogni estate invadono la città precipitandosi a comprare i soliti souvenir di plastica e a bruciarsi sotto il sole che batte sull’Acropoli?
Questi turisti avranno pensato anche solo per un attimo, guardando il mare sotto ai traghetti che li portano su isole troppo affollate, alle persone che vi hanno perso la vita?
Secondo gli ultimi aggiornamenti dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM), soltanto nel 2024 le persone uccise in mare dalle politiche europee sulla migrazione sono oltre mille, almeno 30.000 negli ultimi dieci anni; la rotta del Mediterraneo orientale, dalla Turchia alla Grecia, è tra le più pericolose perché la guardia costiera greca continua ad effettuare respingimenti, pratica ampiamente documentata e già condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) in relazione alla causa Safi et al. contro Grecia, e perché non vi sono ONG che operano nel soccorso.
Quelli che riescono a sopravvivere al mare e alla guardia costiera vengono destinati ai campi profughi; prima vengono trattenuti in quelli sulle isole, campi chiusi sorvegliati come prigioni, quindi sono trasferiti in uno dei campi presenti sulla terraferma, divisi in Reception and Identification Centres (RIC), Malakasa, Diavata e Fylakio, e Controlled Reception Centres for asylum seekers (CTRC). Questi sono ormai l’unico tipo di soluzione abitativa offerta dal governo greco alle persone in movimento, dopo la completa chiusura nel 2022 del programma ESTIA, che prevedeva la sistemazione decentralizzata delle persone considerate più vulnerabili in appartamenti e una serie di servizi di supporto.


I campi sono agglomerati di caravan circondati da mura e filo spinato, dove le persone dovrebbero rimanere temporaneamente in attesa di una risposta alla propria domanda di asilo, ma che diventano per molti, un rifiuto della protezione internazionale dietro l’altro, una sistemazione permanente. E certamente nessun turista si è imbattuto in uno di questi campi, costruiti ben lontano dagli occhi di cittadini greci e vacanzieri, in aree agricole e industriali o su ex basi militari, isolati dai centri abitati. E certamente nessuno si è chiesto se il proprio hotel nel centro di Atene fosse in precedenza una struttura gestita dal basso e destinata all’accoglienza delle persone in movimento, prima di essere sgomberata e requisita dagli interessi privati.
Si sarà domandato qualcuno chi ha pulito la sua camera d’albergo, chi gli ha fatto trovare la strada dello shopping libera dalla spazzatura?
In questo cimitero dei Diritti che è la Grecia, frontiera dove si stabilisce chi può continuare il proprio percorso migratorio e chi invece non ha alcun posto in Europa, si palesa la produttività economica del sistema di gestione delle persone in movimento: l’aumento dei rigetti delle domande di asilo che stiamo osservando, in particolare proprio a luglio e agosto, è parallelo all’aumento delle opportunità di impiego nell’economia sommersa e informale. I campi sulla terraferma si svuotano, non soltanto perché persone esasperate dal razzismo del sistema si assumono i rischi di ripartire per
la rotta, ma anche perché si moltiplicano le offerte di lavoro sulle isole, che devono far fronte alle orde di turisti. Fuori dai campi, ogni giorno, sono moltissimi i soggetti che arrivano a caricare persone sui propri furgoni per portarle a lavorare in agricoltura, nelle industrie e nelle pulizie.
I richiedenti asilo, che avrebbero il Diritto di accedere legalmente al mercato del lavoro, si scontrano con una serie di barriere materiali, in primo luogo l’assenza di collegamenti con i centri urbani; coloro che hanno ricevuto più rigetti alla domanda di protezione internazionale sono invece privati anche dello scarso cibo e degli insufficienti contributi monetari distribuiti dallo Stato greco. Il fatto che ad oggi Associazioni e Organizzazioni Non Governative possano accedere ai campi soltanto a patto di condividere con gli uffici governativi le informazioni che raccolgono, ha portato ad una netta diminuzione delle misure assistenziali per la popolazione migrante, mentre vengono continuamente ridotti i servizi medici e amministrativi; tutto questo costringe le persone in movimento ad accettare lavori massacranti e sottopagati, a volte da conquistarsi ogni giorno quando arriva il furgone. Si manifesta quindi chiaramente la logica sottesa alla costruzione e il mantenimento dei campi come unico spazio destinato dallo Stato greco alle persone migranti, ovvero la volontà di creare sacche di marginalità costrette all’economia informale o illegale; in altre parole, il campo è funzionale alla riproduzione di una riserva sempre disponibile di manodopera senza alcuna tutela. In questo modo, non soltanto possono essere alimentati i discorsi razzisti di stigmatizzazione e criminalizzazione della persona migrante, ma anche un’economia strutturalmente fondata sullo sfruttamento, la precarietà e l’invisibilizzazione della popolazione lavoratrice.
Se le spese da sostenere per il cibo, le medicine, i trasporti informali e le procedure legali rendono chi vive nei campi particolarmente vulnerabile allo sfruttamento nel mercato del lavoro, l’assenza di politiche volte a permetterne l’integrazione economica nel tessuto sociale greco, come misure di supporto per il Diritto alla casa, costringono molte persone in movimento a restarvi anche per diversi anni.
Mentre la città si riempie di alberghi e airbnb per offrire la sistemazione migliore a chi viene a consumare una vacanza, l’impatto del turismo incontrollato sull’abitare è particolarmente problematico per le persone migranti, che si scontrano non soltanto con l’aumento del prezzo degli affitti e la diminuzione delle abitazioni destinate a locazioni a lungo termine, ma anche con il razzismo degli affittuari, che spesso si rifiutano di dare loro la casa. In alcuni quartieri di Atene, guardando in basso, si intravedono stanze piccolissime ricavate sotto terra, le cui finestre sono spiragli all’altezza del marciapiede: non si vede sicuramente mai il cielo, solo le scarpe di chi passa veloce.
Anche la dinamica caratteristica degli ultimi anni di trasferimento delle persone migranti dalle isole alla terraferma, dove sono stati costruiti ben 27 campi profughi, può essere letta in relazione a politiche economiche fortemente incentrate sul turismo incontrollato; già nel 2015-16 gli arrivi sulle isole greche sollevano le obiezioni degli imprenditori locali e portano a ricerche sugli impatti dei flussi migratori su quelli turistici.
“Il messaggio che gli agenti di viaggi devono dare ai loro clienti è duplice: il nostro è un Paese sicurissimo, e il problema dei migranti non interessa le strutture turistiche”, si preoccupa di dichiarare il direttore dell’Ente Nazionale Ellenico per il turismo nel 2016, rassicurando sulla lontananza degli hotspot dai centri abitati.
La fondamentale preoccupazione delle autorità greche diventa quella di impedire quanto più possibile gli arrivi sulle isole, attraverso i push-back e l’implementazione dell’EU-Turkey Agreement del 2016, e di rendere invisibili coloro che riescono ad entrare nella “fortezza Europa”. Il messaggio è chiaro, e ribalta lo slogan dei movimenti sociali che in Italia e nel resto d’Europa cercano di opporsi alle politiche migratorie europee: “all tourists welcome”, non così per i rifugiati.
Nel quadro di un sistema europeo di governo delle migrazioni che continua ad impedire ai richiedenti asilo di lasciare legalmente la Grecia in quanto Paese di primo arrivo, è dunque ormai evidente la natura del campo profughi: il tentativo di condannare all’immobilità le persone in movimento. Ancora più drammatico è quindi il contrasto con la mobilità di tutti questi turisti armati di macchina fotografica e cappello di paglia, completamente ignari di passare davanti a dei campi profughi per raggiungere il prossimo sito archeologico o la spiaggia più esclusiva, di poter trovare in ogni momento una camera perché qualcun altro vive lontano in un caravan, di potersi scattare foto in strade pulite perché qualcuno, invisibile, ne ha raccolto la spazzatura.

C.