Croce e resistenza

Scrivere di questo contesto e della Comunità di Pace di San José de Apartadó può sembrare difficile.

Da una parte, per capire la situazione, sarebbe necessario conoscere la storia del conflitto armato colombiano e delle sue fazioni, capire come i vari attori controllano o penetrano nel territorio, conoscere la geografia della regione, le sue risorse, gli interessi in gioco.

Ma servirebbe più di qualche libro di storia e sicuramente qui manca lo spazio anche solo per una introduzione che possa avere una minima pretesa di esaustività.

D’altro canto è anche difficile concentrarsi sul particolare, rispettando le storie e le sofferenze delle persone e soprattutto rispettando le restrizioni e le regole che si è costretti a seguire per necessità di sicurezza.

Per fortuna è spesso la Comunità di Pace stessa a toglierci dalle difficoltà, continuando a mostrarci esempi di cosa significhi una vita di resistenza nonviolenta: una chiarezza più che sufficiente a rendere il compito molto più semplice del previsto.

La Comunità di Pace di San José de Apartadó nasce nel 1997.

Da allora queste persone hanno scelto di non prendere parte in nessun modo al conflitto armato che devasta questo Paese sin dai tempi della fine del secondo conflitto mondiale.

Per questa scelta, per il loro coraggio e per la radicalità con cui hanno scelto e con cui seguono la strada della nonviolenza, hanno pagato, e continuano a pagare, un prezzo altissimo, sia in termini di vite umane, sia in termini di una vita passata sotto costante minaccia di morte.

Nella maggior parte dei casi la Comunità di Pace è stata vittima di operativi congiunti di paramilitari e militari in massacri figli della logica perversa del “chi non è con me è contro di me”, quando non della palese volontà di appropriarsi delle terre sfollando i legittimi proprietari.

Tutti qui hanno perso dei familiari e sono stati costretti allo sfollamento forzato almeno una volta.

 

Venerdì 18 aprile, gran parte della Comunità di Pace si è messa in marcia, come ogni venerdì Santo degli ultimi 28 anni, per la Via Crucis guidata dal sacerdote gesuita Javier Giraldo, un grande difensore dei Diritti Umani in Colombia che accompagna questa realtà fin dalla sua fondazione.

Come ogni anno, su un tragitto sempre diverso, per ogni stazione la processione si è fermata sul luogo di un assassinato o di un massacro di cui, assieme alla lettura e al commento del Vangelo, sono state ricordate le vittime.

Per un credente è facile cogliere in queste commemorazioni il senso profondamente eucaristico dell’esperienza di vita e resistenza pacifica di questa gente: non vengono ricordati solo i caduti della Comunità di Pace ma anche le altre vittime innocenti di questa zona, inchiodando poi a un albero delle croci con i nomi delle persone uccise.

Per chi invece si situasse al di fuori di un’esperienza di tipo cristiano e religioso, sarebbe comunque evidente il valore e il significato politico di questo evento.

Per più di otto ore questa gente ha camminato sotto il sole dei tropici in nome della memoria di una sofferenza che non è solo la loro, ma quella di tutti, in pubblico e a viso aperto, sapendo di poter essere osservati dagli occhi di chi alcuni di quei massacri li ha perpetrati.

E mentre potremmo nasconderci dietro il fatto che anche noi siamo in grado di erigere memoriali e organizzare giornate della memoria, ciò che distingue la Comunità di Pace dalla realtà delle nostre istituzioni e delle nostre troppo spesso sterili celebrazioni, è la capacità di trasportare nella vita quotidiana il significato e la necessità della memoria, in maniera concreta.

Nel poco tempo che ho trascorso qui con loro li ho visti impegnarsi per difendere il territorio, salvare animali e offrire protezione anche a chi, pur non essendo membro della Comunità di Pace, è finito per essere vittima di minacce.

Ho visto come riescono ad accogliere persone e giovani che, al di fuori di un contesto protetto come questo, sarebbero morti di stenti o risucchiati dal conflitto.

Sono stato testimone di come lottino per il futuro dei più giovani e di come si occupino degli adulti in difficoltà.

Nel mezzo del dolore per i propri caduti, delle minacce e della fatica di una vita contadina, riescono ad essere rifugio e sostegno per il prossimo.

Chiaramente non sono perfetti, esistono qui come ovunque le difficoltà della vita quotidiana di una comunità.
Ma in fondo quello che rivendicano non è la santità, ma la possibilità di vivere come persone normali, come campesinos in grado di poter disporre delle proprie terre e della propria fatica al di fuori delle logiche della guerra e dell’estrattivismo.

 

E.