Panorami, lotta e memoria

È difficile, arrivando da fuori, rendersi conto di quale sia la realtà della vita di tutti i giorni qui alla Comunità di Pace di San José de Apartadó.

Si scende al piccolo aeroporto della città più vicina, Apartadó.
Arrivati alla Comunità di Pace si attraversa un cancello di ferro e dopo qualche abitazione si arriva alla casa di progetto, ci si sistema, si imparano le prime regole di convivenza, con gli altri e con l’umidità (spesso le due cose coincidono).
Passa probabilmente qualche giorno, il tempo di cominciare ad acclimatarsi, forse a cominciare a riconoscere qualche volto, a fare le prime due chiacchiere con la gente.

Poi arriva la prima richiesta di accompagnamento.

E allora via, vengono spiegate le regole, le cose fondamentali da sapere per montare in mula o su come percorrere tratti a piedi, come fare lo zaino, come vestirsi, una panoramica del percorso, come accompagnare il gruppo.
Poi si parte, se tutto va bene sotto un cielo con una quantità nuvole sufficiente a impedire al sole di cuocere la pelle senza che però portino pioggia e un fango che può arrivare al petto degli animali.

Si attraversano fiumi e torrenti, si passano pascoli e boschi dove all’improvviso può capitare di imbattersi in alberi maestosi, alti più di cinquanta metri e con un tronco che dieci persone farebbero fatica ad abbracciare.

A volte sembra che un altro sottobosco cresca al di sopra delle pareti impenetrabili ai lati dei sentieri: su branche che formano chiome gigantesche, piante parassita e simbionti formano cespugli e liane che pendono da decine di metri di altezza, mescolandosi ai rami delle piante inferiori e ai nidi degli uccelli.

Se non si concentra lo sguardo sui dettagli è il verde che prende il sopravvento e domina la scena, un verde più o meno scuro a seconda della lontananza, dell’umidità nell’aria, delle condizioni meteo.

E una marea di suoni, in cui ci si perde mentre chi è qui da più tempo prova a farci seguire questo o quel rumore alla ricerca di una scimmia o di un tucano.
Poi si arriva a destinazione, e si spende qualche giorno ad aspettare che i membri della comunità portino a termine i loro lavori, in attesa tra un pasto e l’altro.

Si dorme in amaca, dal calar del sole all’alba.
Poi quando è il momento si riforma la piccola carovana, ci si immerge nuovamente nei sentieri e si torna a casa.

Tuttavia, a chi guardasse da fuori, qualche stranezza sicuramente salterebbe all’occhio:
si accorgerebbe subito che siamo degli accompagnatori ben strani, meno esperti di chi accompagniamo per quanto riguarda i sentieri e gli animali, più lenti negli spostamenti.
Senza saper nulla del contesto, il conflitto risulta assolutamente invisibile.

Qua e là ne si riconoscono le ferite che permangono sul territorio, sotto forma di cartelli di pericolo al lato dei sentieri, indicanti la presenza di campi minati.

Ma danno quasi l’impressione di essere un residuo del passato, per quanto recente.

Lungo tutta la tratta, chi fosse inconsapevole delle dinamiche di violenza endemica caratteristiche del contesto e del livello di penetrazione nel territorio di gruppi armati, potrebbe pensare di essere in vacanza in un paradiso tropicale: selvaggio il giusto, ma con alcuni pascoli a dare giusto quel tocco di ordine e geometria al panorama delle colline.

Le giornate di attesa sono spese monitorando la strada ai lati del terreno dove stiamo sostando e accompagnando i membri della comunità con cui ci siamo spostati ogni qual volta debbano lavorare.

Sono tutti sotto costante minaccia di morte.

L’accompagnamento serve a scongiurare atti di violenza, sfruttando la forza del numero come deterrente.

La scelta radicale della Comunità, compiuta ventotto anni or sono, di sottrarsi alle dinamiche del conflitto, fa si che i suoi membri siano in costante pericolo.

Salendo e scendendo dai sentieri qui non si fa turismo, si è costantemente in pericolo e in allerta, e il miracolo che si incontra non è quello della natura o un semplice panorama.

È quello di un gruppo di campesinos che, in un territorio e in uno Stato in cui la violenza è tristemente e prepotentemente intrecciata con la storia delle persone, delle famiglie e delle istituzioni, rivendicano il loro Diritto a coltivare la terra e vivere alla loro maniera, pacificamente.

Per farlo portano avanti una lotta che si basa su due elementi imprescindibili: terra e memoria.
Terra che lavorano costantemente, che curano palmo a palmo, terra che tanti non vedono l’ora di portargli via.

E memoria, una memoria legata alla terra ma anche al ricordo dei sacrifici e dei loro scomparsi, mai sterile e sempre legata a una coscienza formidabile che permette loro di misurarsi testa a testa con istituzioni apparentemente incommensurabili, come lo Stato stesso.

Un miracolo per noi, la normalità per loro, ma con il salutare effetto di farci sentire piccoli davanti a un contadino.

 

E.